“Taglia”, dico.
Nuda e cruda, la voglio.
La verità.
L’autenticità.
Glielo dico che ho ancora lo shampoo addosso, mentre mi lava i capelli. “Quanto?”
“Molto”.
Ci sono specchi dappertutto, qui dentro: le donne controllano il risultato del suo lavoro, sembra che si guardino con gli occhi della gente fuori dalla vetrata del negozio, di chi cammina sul marciapiede. Io mi guardo coi miei occhi, solo quelli, tanto anche se volessi non ci riuscirei a mettermi fuori, sul marciapiede, e osservarmi da lì.
Voglio la mia faccia, i lineamenti del viso, così come sono. E se il mondo deve guardarmi, che possa vedermi dritto, senza cornici.
Quand’ero piccola, mia mamma mi pettinava.
Aveva sempre fretta, era di corsa.
Mi prendeva, e mi pettinava. Con quei pettini, non so se esitano ancora perché non ne ho più visti, quei pettini con denti larghi da un lato e più stretti dall’altro, fatti apposta per sciogliere i nodi piano, con dolcezza, prima i più grossi, poi i più piccini.
Solo che lei aveva fretta, e non faceva piano.
Solo che io sono riccia.
Chi ha capelli ricci mi capisce di sicuro: venire pettinata era una tortura. Mi colavano lacrime lungo le guance, fino al mento e io non sapevo trattenerle.
Era il momento peggiore della giornata.
“Perché non ti pettini? Non ti metti in ordine?”
I boccoli scuri mi incorniciano il viso, sempre stralunati. Me li taglio da sola, che tanto sono ricci e nessuno si accorge se sono irregolari.
“I capelli ricci non si pettinano, mamma”.
Imperterrita, ogni volta che mi vede, la prima cosa che dice mentre sono ancora sulla porta è sempre quella.
“Perché non ti pettini?”. Lo ripete come un mantra.
Ripenso alla bimba con le lacrime lungo le guance e mi arrendo: te lo devo proprio dimostrare, perché non mi pettino.
Così vado nel suo bagno e cerco il pettine. Ovviamente lo trovo, i tempi sono cambiati e adesso ha solo denti a distanze omogenee.
Lo prendo e piano, dolcemente, mi pettino. Passo i ricci uno alla volta, con cura.
Ci vuol pazienza, quando arrivo alla nuca ho le braccia stanche e pesanti.
“Il pranzo si raffredda! Cosa combini?!”
Arrivo a tavola coi capelli pettinati e l’aria trionfante di chi ha corretto un errore antico.
“Oddio, ma che hai fatto?”.
Eccomi appena uscita dal tunnel del vento, la testa completamente elettrizzata, pettinata e vittoriosa: ho finalmente messo la parola fine ad anni e anni della stessa domanda, reiterata, ripetuta, ribattuta, una goccia cinese eterna, sicura come la notte dopo il tramonto.
Quello che da bambina non sapevo fare.
Non ricorda il tunnel del vento, forse, ma è ancora troppo giovane per l’Alzheimer.
Mi scrollo di dosso la domanda. Mi arrendo, stavolta sul serio. Non mi pettino, è un dato di fatto e i fatti non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno, nemmeno della sua.
Ci ho provato.
Ci ho provato a pettinarmi, a stare in ordine.
Mi sono pettinata, e mi sono laureata in giurisprudenza.
Mi sono pettinata, e ho lavorato in azienda.
Ma i miei ricci non si pettinano.
La verità è questa.
Gradualmente ho guardato in faccia la mia faccia vera, e ho visto le lacrime di tutti i pettini che mi ero lasciata imporre.
Ci ho messo del tempo per trovarmi e non sempre mi sento intera, ma mi alleno ad essere autentica.
Non perché dico quello che penso.
La verità è oltre, o forse prima, è accorgersi delle maschere che ho addosso, messe lì chissà quando e rimaste appiccicate, a soffocare la spontaneità, a sprecare vita.
Autenticità è toglierle, giorno dopo giorno.
Incarnare la propria verità è un dato di fatto e i fatti, appunto, non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno.
Ero all’università quando lo Yoga mi ha trovata, mi ha attecchito dentro e ha messo giù una radice così profonda che non so proprio dove arrivi e nemmeno me lo chiedo.
Essere colta dallo Yoga mi ha mostrato che i nodi venivano da quell’abitudine sottopelle a sentirmi, in fondo, sempre spettinata, sempre controcorrente, anche se non potevo, non potevo proprio pettinarmi e vivere una vita che non sentivo appartenermi.
Ho lasciato il lavoro senza rimpianti perché non mi somigliava: e io, per somigliare a quel lavoro per cui provavo comunque interesse, mi dovevo mascherare. “Lo facciamo tutti”, sospirava con rassegnazione la mia amica e collega.
Forse sì, ma diversamente da altri ho bisogno di poterla vedere bene, la mia faccia.
“Taglia”, ho detto.
Erano anni che mi arrangiavo i capelli da sola, ma non bastavano più i ricci stralunati.
Volevo andare alla radice.
Allora ha tagliato, molto corto.
Adesso la mia faccia è nitida.
Quando non mi sento in armonia passo le dita sulla testa, sento lo spessore minimo dei capelli e tiro un respiro di sollievo. Guardo agli anni trascorsi a pettinarmi con un pettine a denti sempre più larghi, penso a tutto il tempo e le lacrime che ci ho messo e non rinuncerei mai alla mia faccia, adesso che ce l’ho.
A Ferragosto la piazza in cui abito si riempie di migliaia di persone che vengono da tutta la provincia per vedere i fuochi d’artificio. È un carnaio impensabile.
Sono rientrata in città giusto alla fine dello spettacolo, quando l’oceano umano si muove compatto come il cemento verso gli sbocchi della piazza, verso casa propria.
Era quasi impossibile fendere la marea umana.
Ero in senso opposto: loro venivano via, io stavo arrivando.
Arrancavamo tutti, loro e io, in direzioni contrarie.
Un signore anziano che, come tutti, avanzava lento, irritato dall’ostacolo che rappresentavo sul suo cammino, mi ha apostrofata furente:
“Signorina, guai ad andare controcorrente!”
Gli ho sorriso,
“Lo dice lei!”.
Tiana On 15/02/2012 at 10:21 PM
Carissima Laura,
Grazie per questo bellissimo posting. Risuona dentro di me a un punto che non hai idea. Mi fa sentire capita, mi sollevia perche ti capisco, e mi capisco meglio adesso.
Anche io ho i capelli ricci. Molto piu ricci dei tuoi. Al momento non posso rinunciare al mio "brushing" 🙂 pero' come te ho lasciato il mondo della giurisprudenza dieci anni fa, e adesso sto lasciando il mondo delle risorse umani, sto lasciando un appartamento "chic" di cui non ho bisogno, lascio tutto quelllo non mi corrisponde piu'.
Anche io vado controcorrente, libera, anche se fa paura, ma non posso fare a meno che ascoltare la bambina dentro di me. La piccola che stava piangendo quando ho provato di conformarmi ai stereotipi. Adesso prendo tempo per ascoltarla e consolarla.
Andare controcorrente è il mio cammino adesso. Leggendote mi sento piu' brava per continuare.
Ti abbraccio forte.
Tiana